I numeri non parlano da soli, ma quando dicono che più di uno studente su quattro ha subito bullismo o cyberbullismo, chiedono di essere ascoltati.

Non è una statistica lontana, né un fenomeno che riguarda solo situazioni “difficili”: è la fotografia di ciò che accade nelle classi, nei corridoi, nelle chat private, nei gruppi sociali che gli adolescenti abitano ogni giorno. Questa percentuale, così alta, ci costringe a guardare oltre l’immagine tradizionale del bullismo fatto di spintoni e insulti gridati. Il bullismo oggi è spesso silenzioso, sottile, nascosto nelle relazioni e nelle dinamiche di gruppo, e proprio per questo capace di ferire più profondamente.
C’è un altro dato che emerge con chiarezza: le ragazze risultano colpite più dei ragazzi. È una differenza significativa, che racconta quanto il peso del giudizio, dell’immagine e della reputazione ricada in modo diverso sui giovani a seconda del genere. Le ragazze non subiscono solo attacchi diretti, ma forme di aggressione relazionale che colpiscono l’identità e il senso di appartenenza: esclusioni, commenti sull’aspetto, insinuazioni, derisioni che viaggiano veloci dentro un gruppo WhatsApp o che si manifestano in uno sguardo di troppo tra i banchi. Ed è in questa dimensione invisibile che spesso si nasconde la sofferenza più profonda.
Perché le ragazze sembrano più vulnerabili
Il bullismo che colpisce le ragazze ha poco a che vedere con la forza fisica. È un bullismo che scava, che si insinua nelle percezioni e nei rapporti, che usa la reputazione come arma. Una fotografia condivisa senza permesso, una frase allusiva, la decisione di escludere qualcuno da un gruppo sono gesti apparentemente piccoli, ma capaci di lasciare cicatrici durature. Nell’adolescenza, il giudizio degli altri ha un peso enorme, e quando la delicatezza di quell’età incontra strumenti digitali che amplificano ogni gesto, il disagio può crescere in silenzio per settimane.
La pressione estetica è un altro elemento cruciale. Vivere in un mondo iperconnesso significa confrontarsi continuamente con immagini, modelli, aspettative. Una ragazza derisa per il proprio aspetto o per un particolare fuori posto può percepire l’episodio come una conferma della propria inadeguatezza. Quella frase, magari nata come “uno scherzo”, viene interiorizzata e trasformata in un pensiero ricorrente. E quando l’offesa si ripete, cambia il modo in cui ci si guarda allo specchio, il modo in cui ci si muove nel gruppo, la fiducia che si ha negli altri.
Anche il cyberbullismo gioca un ruolo determinante. Gli episodi non si esauriscono nel tempo della scuola, non terminano con il suono dell’ultima campanella. Continuano la sera, nei messaggi privati, nei commenti lasciati sotto un post, nelle storie che scompaiono in pochi secondi ma che producono effetti duraturi. Nel mondo digitale, le dinamiche di potere e di esclusione diventano più rapide e più difficili da controllare, soprattutto per chi è più sensibile o più esposto emotivamente.
Cosa significa davvero “uno su quattro”
Dietro quella cifra ci sono ragazzi che forse non ne hanno mai parlato. Ragazzi che entrano in classe con un sorriso trattenuto, convinti che sia meglio non dare troppo nell’occhio. Ragazze che fingono indifferenza quando qualcuno fa una battuta, ma che arrivano a casa con la sensazione di non valere abbastanza. Studenti che si sono convinti che il problema sia “loro”, non ciò che subiscono.
Il bullismo non è sempre un grande evento drammatico. Molto spesso è una piccola ferita quotidiana che si somma alla successiva, creando un deposito di dolore difficile da smaltire. Per questo non si tratta solo di individuare l’episodio e fermarlo, ma di riconoscere il malessere che si crea attorno ai ragazzi che ne sono coinvolti. Il bullismo lascia segni invisibili: cambia il modo di relazionarsi, modifica l’autostima, spinge verso l’isolamento o, in alcuni casi, verso comportamenti aggressivi a loro volta.
Perché questo dato può essere un punto di svolta
Sapere che il bullismo riguarda così tanti studenti non deve portare al pessimismo, ma alla consapevolezza. Significa che non siamo davanti a un fenomeno isolato, e soprattutto che è possibile agire prima che il disagio diventi qualcosa di più grave. Ogni volta che un ragazzo trova il coraggio di parlarne, si apre una possibilità di intervento. Ogni volta che un adulto ascolta senza minimizzare, si crea uno spazio sicuro. Ogni volta che una classe impara a riconoscere la violenza sottile delle dinamiche sociali, qualcosa cambia.
Il fatto che tanti studenti abbiano dichiarato di essere vittime è, paradossalmente, un segnale positivo. Significa che il silenzio si sta rompendo. Che la sensibilità attorno al tema sta crescendo. Che le nuove generazioni sono più pronte a riconoscere l’ingiustizia e a chiedere aiuto. È da qui che si può partire per costruire una scuola in cui le relazioni diventano davvero uno spazio di crescita, e non un luogo di paura.




